giovedì 29 novembre 2012

Le parole fanno capolino dai quadretti. Cerco di acchiapparle come si faceva con i pesci di plastica che aprivano e chiudevano la bocca in quel gioco che usavamo da bambini. A me si attorcigliava la lenza della canna, distratta com'ero dal ronzio di sottofondo e dai quadretti del tappeto. Sul tappeto si giocava con i soldatini, di domenica. A me ricordava una nave spaziale, ma nel fustino non c'erano astronauti. Dietro la poltrona ci si poteva nascondere e far finta di essere un leone o una pantera, e sotto il divano si nascondevano i libri e tutti i Topolino dispersi, quelli di cui lo zio si intestardiva a cercare i numeri mancanti. Da lì la vestaglia della nonna sembrava la veste di Sherazade, e i piedi del nonno quelli dei pastori del presepe. Il termosifone era perfetto per appoggiare le figurine in bilico, anche se cadevano ad un soffio, molto prima che la biglia li raggiungesse. Perdere non era una tragedia, la era solo essere scovati a nascondino o non poter essere ammessi a salire sulla casa sull'albero. Scivolavo spesso, e le mie ginocchia non avevano più posto per i graffi, però avevo le mani piene di more, di susine, di ciliege. In terrazzo sotto la tenda scrivevo, la penna impugnata per fronteggiare il caldo accecante del pomeriggio. Non ho cambiato certe abitudini, mi siedo ancora a gambe incrociate su un cuscino quando scrivo, su fogli possibilmente non del tutto bianchi, e senza righe. Con una matita appuntita che, scrivendo in stampatello, chiude le lettere nella gabbia dei quadretti. Da lì le parole tentano di fuggire o di affacciarsi sul mondo. A volte le lascio fuggire senza oppormi, perché so che da sole troveranno la strada di casa. Altre volte mi raggiunge la consapevolezza dolce che prima o poi, come i ricordi, le parole torneranno da me.

lunedì 26 novembre 2012

Le onde trascinano la paletta consumata di plastica gialla avanti e indietro, e io mi sento abbandonata come un vuoto casuale. La sensazione di smarrimento che accompagna davanti alla morte mi tiene la mano e mi culla come un'onda, mentre rifletto su rughe che indicano una vita passata serenamente, sulla mancanza di alcuni parenti che riscuoteranno comunque un'eredità, sull'intonaco lavanda della camera mortuaria che si scrosta come la fede da chi vacilla. Fa freddo, e le firme tentano invano di riempire il vuoto su una pagina lasciata a metà. I frammenti della mia vita cadono come foglie da un albero ingiallito e silenzioso. Restano le lettere a consegnare la memoria di un postino sorridente come un nonno, quando una me bambina gli correva incontro aprendogli entusiasta il portone. Resta il suo cognome da pietra preziosa, il cui ricordo continuerà a brillare nascosto nei cassetti della memoria. Resta un amore per la carta non scartata, per le foglie secche, per i francobolli smarriti sotto timbri illeggibili e la immancabile buona tavola. Nel salutarlo un'ultima volta vorrei avere la sua eleganza, toccarmi il cappello con aria smarrita e dirgli che non mi sono ancora sposata, perché so che vorrebbe saperlo. Invece resto qui, senza le parole per una nuova preghiera, con le dita raccolte come fiori recisi.

mercoledì 19 settembre 2012

Il mare è di tutti. E' della musulmana che resta seduta a guardarlo nostalgica mentre accarezza la testa al suo bambino che dorme. E' del pescatore che è appena uscito in barca speranzoso, con la lanterna accesa che più tardi si confonderà con le stelle. E' della badante rumena che scarta il panino caldo sorridendo, superata da due runners allenatissime che sembrano mangiare solo insalata. E' di chi ha lasciato le impronte che si stanno cancellando. Appartiene alle suore, costrette a tenere la veste alzata mentre trascinano nell'acqua fredda i polpacci al ritmo lento del rosario, ai pesci curiosi che li sfiorano e al gabbiano che eleva al cielo le sue grida stridule. E' mio, mentre siedo con le stampelle appoggiate alla panchina e tiro fuori il taccuino dalla borsa, pensando che la vera ricchezza passa sempre inosservata, ed è gratis. Il mare questa sera è tanto bello che quasi quasi rimpiango di non avere un i-phone con instagram con cui fare una fotografia, per poter dire a tutti che è di tutti, che mi scivola negli occhi e che resta lì attaccato come dita a una caramella appiccicosa. Un confetto di zucchero blu, che cadendo in terra si è sciolto in una pozzanghera salata.

mercoledì 12 settembre 2012

Quello che per Proust era la madeleine, per me è la pasta con lo stracchino. Lo so, sembra un paragone azzardato. Eppure, ogni volta che la forchetta la infilza e mi arriva sotto il naso, non posso evitare di vedere porte rotte e cassetti aperti, e provare in quell'istante una sensazione contrastante di inaspettata beatitudine. Era un anno qualunque tra il 1982 e il 1987, una domenica come tante. Arrivammo alla casa di campagna in macchina come avremmo fatto migliaia di volte prima e dopo allora, in una mattina che non avremmo più dimenticato. Un episodio forse banale per molti, una scritta sulla lavagna da cancellare per tutta la mia famiglia, vicenda breve da narrarsi. Nell'unico fine settimana in cui i miei nonni si erano assentati dalla casa in molti anni, i ladri avevano svaligiato le case, la cantina, gli sgabuzzini, la caldaia, il ripostiglio degli attrezzi, il giardino, tutto. E quando dico tutto intendo che non si trovò nemmeno più il cinghiale congelato dentro il freezer, dettaglio che suscita tuttore ilarità se si solleva l'argomento. Mia madre e mia nonna vagavano per la casa come uccelli dalle ali spezzate, ferite fino allo spasmo; non per il valore economico, ché di certo elevato non era, ma per l'incredibile quantità di ricordi spazzati via da un imprevisto colpo di spugna. I miei occhi di bambina fotografarono cassetti rotti, porte abbattute, ante aperte, vetri in frantumi, e nemmeno un tappeto, una fotografia, una tenda, una spilla, un ricordo, un asciugamano. Restavano solo vecchie stoviglie sbeccate, e un panetto di stracchino nel frigo. Pure, quella donna eccezionale che è mia nonna impugnò con piglio deciso una pentola, affermando che bisognava pure reagire in qualche modo. Dopo cinque minuti la pasta era pronta, e noi tutti seduti, attoniti scolari diligenti in fila davanti a un animo energico, con in mano la forchetta. Il ricordo nitido scaturisce tuttora, se sento il profumo della pasta con olio e stracchino, che è diventata da quel giorno per me metafora della famiglia unita davanti alle avversità impreviste. Sono certa che chiunque della mia famiglia la assaggi o la annusi provi lo stesso, non serve ricordarlo, fa sorridere. Mi fa sorridere anche quando resta la scelta in extremis se mi sono dimenticata di fare la spesa. Mi ricorda qualcosa di importante. Ad esempio. Non so cosa abbia cucinato mia madre la sera dell'alluvione, ma credo fosse pasta con lo stracchino.

martedì 11 settembre 2012

Mi piace ascoltare le parole e vederle ancorarsi allo schermo, alla carta, alla tela, al frigo, al pensiero, come riflessi trattenuti da una pozzanghera, come note in sala di incisione, come uccelli sul filo. Sembrano leggere, instabili, pronte a cadere o a librarsi in volo, eppure immobili in quello stesso istante, come se non esistesse un luogo migliore dove andare. Fisse come spilli, sembrano scegliere senza esitazioni dove appuntarsi, correre verso il cuore segreto di una bambola voodoo che racchiuda l'anima dell'ignaro proprietario. Parole nascoste, molto vicine al silenzio che aiuta a ritrovare se stessi e a fronteggiare la paura, quella che avevo un tempo, quando credevo che sarei potuta cadere a un solo soffio, scivolare da ferma. Non vedevo me stessa a fuoco, la luce era quella sbagliata, la terra lontana, i fari ancora spenti. Una sera ho trovato parole sul pavimento, come se si fossero ferite contro un avversario. Le ho raccolte, ricomponendo il loro messaggio come si fa con un enigma. Ne ho vestito i panni, scivolando dentro una tela bianca smarrita da un saltimbanco di passaggio, e lì sono rimasta.

venerdì 7 settembre 2012

Nella sala d'aspetto osservo quello che succede attorno a me come un pesce rosso deve guardare dalla boccia una cena in un salotto, curioso e stupito dei poco circolari movimenti altrui. Poi salto fuori, colta da spasmo improvviso. Chiacchiero con la moglie del poliziotto dell'antidroga inciampato a terra dopo aver terminato illeso il lancio da un paracadute e con il suocero accompagnatore che mi mette in guardia contro le insidie delle due ruote. Dialogo di body art con un motociclista pieno di cicatrici, sostenendo che si potrebbe realizzare un'installazione fotografando i dettagli del suo ginocchio prima di scoprire come lui stesso tenga una sorta di diario fotografico dei segni dell'incidente e dei loro progressivi miglioramenti. Trovo poetiche certe tenerezze di una sconosciuta badante straniera, che aggiusta la vestaglia alla vecchietta in carrozzella con il femore rotto, e gioisco dell'inaspettato saluto di un bambino di terza elementare che, dopo aver passato quasi un'ora seduto vicino a me, mi manda un bacio dalla porta dopo essere stato dimesso. Di quattro ore di attesa nell'ambulatorio di ortopedia, quello che mi resta non è soltanto il gesso.
Una scatola dei segreti. Come quella che si apre da grandi per ricordare, stupendosi di quanto diversi sembrino oggetti che apparivano indispensabili per passare le giornate sotto la tenda in giardino o nascosti dietro il divano. Come una casa in cui si sia passata l'estate durante l'infanzia, che ora sembra sorprendentemente piccola. Un insieme di profumi, sensazioni, emozioni e ricordi pari al pentolone di una strega da cui si sprigionino misteriosi effluvi verso cui essere attratti nonostante la prospettiva del rogo. Un modo per ritrovare le orme di quello che siamo stati, per non smarrire la strada che abbiamo percorso, lungo la quale abbiamo seminato le nostre briciole. Una scatola in cui raccogliere pensieri disseminati dietro gli scontrini, ai lati dei biglietti del treno, su fogli sparsi nella borsa, che sia una sorta di albero le cui foglie si rinnovino durante stagioni di cambiamento. Forse è questo che normalmente accade, fuori dal tempo: un foglio cade, nel silenzio. Le parole si confondono, si dissolvono nella pioggia, si accumulano, giacciono, fremono, maturano, generando nuove combinazioni di lettere che tornino cambiate eppure uguali, ché in fondo le note sono sette, ma la musica infinita. Con gli occhichiusi sento lettere agitarsi in fondo alla scatola, e mi sembra un rumore di ali di farfalle. Ne raccolgo una parte, per ricominciare a scrivere, seduta nel buio del bosco. Là in fondo, una luce mi indica una casa di marzapane.