Nella sala d'aspetto osservo quello che succede attorno a me come un pesce rosso deve guardare dalla boccia una cena in un salotto, curioso e stupito dei poco circolari movimenti altrui. Poi salto fuori, colta da spasmo improvviso. Chiacchiero con la moglie del poliziotto dell'antidroga inciampato a terra dopo aver terminato illeso il lancio da un paracadute e con il suocero accompagnatore che mi mette in guardia contro le insidie delle due ruote. Dialogo di body art con un motociclista pieno di cicatrici, sostenendo che si potrebbe realizzare un'installazione fotografando i dettagli del suo ginocchio prima di scoprire come lui stesso tenga una sorta di diario fotografico dei segni dell'incidente e dei loro progressivi miglioramenti. Trovo poetiche certe tenerezze di una sconosciuta badante straniera, che aggiusta la vestaglia alla vecchietta in carrozzella con il femore rotto, e gioisco dell'inaspettato saluto di un bambino di terza elementare che, dopo aver passato quasi un'ora seduto vicino a me, mi manda un bacio dalla porta dopo essere stato dimesso. Di quattro ore di attesa nell'ambulatorio di ortopedia, quello che mi resta non è soltanto il gesso.
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