giovedì 25 febbraio 2016

E poi c'è questa faccenda dello scrivere. Come se a volte non si potesse fare altro. Tu la trascuri, questa faccenda, pensando di non essere più capace. Pensando che correre, lavorare, meditare, tuffarsi sotto l'acqua bollente della doccia, sarà sufficiente per non tornare davanti al foglio bianco a chiederti cos'è che 'davvero' vuoi fare. Ché poi la faccenda dello scrivere va pari passo con quella dei bilanci, a chiedersi cosa hai combinato di buono nella vita, e cosa ti aspetti ancora che succeda, con il cuore gonfio di speranza che non sai nemmeno tu quando hai accumulato. In tempi di vacche grasse, quando sorridere era pane quotidiano, quando scivolare era una vertigine e non paura di precipitare, quando la fiducia era un dono incondizionato. Eccoti qui, seduta ancora una volta con un groviglio di pensieri che sai che puoi mettere a posto in un solo modo, una lettera alla volta, un tasto dopo l'altro, un indice dopo un mignolo. Sai che non ti basterà, perché ogni volta i ricordi cominceranno ad affacciarsi come massaie curiose, chiocciando e pigolando fino a quando non ne sceglierai uno da trasformare in qualche riga. E l'amore? Ti chiederai. Tutto l'amore dove lo metto, se lo trovo? Non ci sta su un solo foglio, a scrivere un libro non sono capace io, non sono mica Nabokov. Poi ti ricorderai che l'amore ora è un uomo perduto, che vaga tra una neve che non hai visto cadere, a farsi domande di cui non conosci la risposta. Ubriaco e stanco, è partito una mattina tanto tempo fa, e tra le tue pagine sarebbe un personaggio troppo triste che è meglio idealizzare. Tu a trasfigurare non sei capace, sei in grado solo di trovare la poesia tra le foglie di un vecchio ciclamino. Cosa ne sarà della tua scrittura, se non sai nemmeno incidere un sentimento sul legno? La scrittura va curata, coltivata, è una faccenda seria. Per troppo tempo non le hai dato da bere, a lungo le tue mani sono rimaste vuote e i tuoi pensieri sparsi. Non c'è tempo ora per infilarsi i guanti, devi sporcarti di terra e salvarla, salvarti. Chè la faccenda dello scrivere non è una delle tante faccende della vita. Sei tu allo specchio, anche quando sei di spalle. Così ti siedi, e scrivi una cosa sconclusionata. Eppure, stranamente, ti senti meglio. E non avevi dubbi che sarebbe stato così.

venerdì 23 ottobre 2015



Il mio cervello è in modalità aereo. Sto cercando in impedirgli di pensare, di cercare, di sognare, di aspettare. Tutta la vista è concentrata sull’orizzonte di un mare che mi sembra lontanissimo per quanto calmo, che si perde nel silenzio di un mattino che, pur sembrando identico a tanti altri, non lo è. Il cuore mi è scivolato dalla tasca, l’ho perso senza nemmeno il rumore che possa fare un mazzo di chiavi sull’asfalto. E io cammino con un vuoto nel petto, come un automa di legno composto da pezzi di puzzle che vada in cerca dell’unico mancante. E vago, sui marciapiedi che sembrano sempre sinonimi di incontri e attese, senza nemmeno sapere bene dove andare. Non è il fatto che non ci sia più tu, a farmi paura. E’ il fatto che non ci sono più io, nemmeno nel riflesso delle pozzanghere asciutte. Mi siedo su una panchina davanti al mare. Accarezzo le foglie di una pianta per sentire la vita scorrere, affondo le dita nella terra alla ricerca di un tesoro di cui ho perduto la mappa. Mi sento stanca. Eppure in tutto questo stare ferma e dolorante trovo un senso, quasi che il dolore mi facesse sentire viva e mi ricordasse che ho qualcosa dentro di cui molti si vergognano e che qualcuno ha addirittura dimenticato. La crepa nel muro bianco mi attraversa come una fitta, e chiudo gli occhi. Passerà, mi dico. Respiro a fondo e penso che tra le pagine dei libri il mio stato d’animo trova un’eco forte come la risacca d’autunno. Il sole mi asciuga la faccia. Metto i ricordi in tasca e mi incammino senza contare i passi.

domenica 23 febbraio 2014

Il viale delle Piagge mi accoglie come se non me ne fossi mai andata. I passi scivolano veloci sul fango portato dalla recente piena, lasciando le impronte vaghe della corsa. Il silenzio è interrotto solo dal mio respiro affannoso e dal suono felice delle campane della domenica mattina. Conto i passi solo all'andata, per cercare il ritmo che noi neofiti della corsa non conosciamo. Mi accorgo di aver dimenticato il lettore mp3 solamente a tre quarti dei cinque chilometri che ho deciso di affrontare, e solo perché incontro esperti runners che lo indossano con l'orgoglio della medaglia di guerra. Come gli evidenziatori nei taschini delle infermiere, che ne indicano il grado. Io sono ferma alla matita, ma questa mattina non mi importa. Il sentiero tra gli alberi è immerso nel verde, e mi sembra un giardino zen in cui ogni cosa sia disposta al proprio posto. Sono dove dovevo essere, ad ascoltare il canto del merlo solitario, a stupirmi di quante canne possano oscillare eleganti al poco vento. La solitudine mi tiene caldo come una coperta colorata, il rumore delle scarpe mi ricorda che non devo fermarmi. Sono alla ricerca di qualcosa che ho perso, intenta nel tentativo di riannodare il filo dove si è rotto. Non voglio inciampare nelle mie scarpe slacciate, o scivolare su una radice. Guardo dove metto i piedi,  ma non mi fermo, nemmeno quando il respiro si fa faticoso. Un campanile pende rivelando un fascino antico, la strada curva verso casa. Gli amici mi aspettano, ho il sole sulla faccia. Inizia la discesa.

martedì 4 giugno 2013

i piedi sulla moquette e la carta sotto le dita. giro le pagine con circospezione, come si fa con i libri preziosi, con la matita tra le dita pronte a sottolineare. aggrotto le sopracciglia, aggiusto gli occhiali. cerco tra le pagine qualcosa che ancora non conosco, ma che nello stesso tempo mi appartiene. scivolo sotto la coperta fuori stagione, e mi guardo intorno. televisione spenta, musica, fogli sparsi sul tappeto. sullo schermo lampeggiano parole di conversazioni inaspettate, pezzi di puzzle che trovano il loro posto da soli. in questi giorni, la voglia di ringraziare chi mi dedichi del tempo è una necessità, come se facessi un inchino a uno specchio. ho bisogno di trovare negli occhi degli altri qualcosa che mi sfugge, che da tempo fatico a individuare, che forse coincide con i miei occhi chiusi. una luce stanca illumina le mie mani, i pensieri vagano con il fumo dell'incenso e faticano a prendere una forma definita. le lancette girano, i quadri mi fissano curiosi, chiedendosi  se non sia tempo di farli uscire dalla cornice. la stanchezza si misura dal mascara attaccato alle ciglia. il silenzio mi abbraccia, e io sorrido felice pensando a qualcuno che stasera mi ha scritto. grazie.  

giovedì 9 maggio 2013

Rimango incredula al binario, dopo aver visto partire il treno che avevo aspettato a lungo. Ero in ritardo, o sono in anticipo su un tempo che non conosco. Non ti affacciare dal finestrino, non mi telefonare. Non ti preoccupare di esser salito. Ci sono molte cose da osservare in una stazione, e a me basta rimanere sorpresa, tenere in mano il mio taccuino, e scrivere. Forse, piangere un po'. Per tanti motivi per cui non l'ho ancora fatto, e che adesso leggo scritti sulla linea gialla che non devo oltrepassare. Al chiudere degli occhi la stazione si muove, l'ingranaggio gira in senso orario, la mente si riposa. L'orologio segna un'ora imprecisata tra le due e le tre, le impronte che escono dalla pozzanghera si dirigono nel senso inverso. Io, semplicemente, aspetto.

mercoledì 13 febbraio 2013

La realtà è sempre una fonte di ispirazione inesauribile, da qualsiasi lato la si guardi. Ma certe persone sono ispirazione forte solo per noi, per quello che vogliamo essere davvero. Basta riconoscersi in certe parole per aver ancora la forza di scivolare fuori dal torpore e recuperare il capo del gomitolo che ci conduce al sogno smarrito. Il labirinto resta in agguato con la sua immobilità. La paura, raggomitolata in un angolo, appare più piccola alla luce del sole che filtra tra i rami. Nel silenzio sembra di riconoscere una musica che ci guida. L'ultimo passo è attraversare lo specchio senza perdersi di vista. Ma non siamo neppure a metà strada. Stringo il filo tra le mani, e mi pizzico una guancia. Stavolta non voglio addormentarmi.

giovedì 7 febbraio 2013

Mi siedo con il mio silenzio, e aspetto. Attendo il fluire dei pensieri che scivolano, come acqua di fiume, lenti e costanti. Lo faccio sempre, fino a quando il velo non si scopre. In questi giorni il flusso si interrompe, non arriva fino alle dita. Blocco dello scrittore, lo chiamano. Idee che si accavallano in testa e che irruente si scontrano, mescolano e infine incastrano prima di scivolare lungo il tubo che porta alle falangi. L'imbuto è stretto per lettere che possono appartenere a parole che si somigliano, le storie non riescono a tornare alla spada piantata dai fratelli al bivio in cui si sono separati. Il peggio è che la paralisi è completa. Passa la voglia di leggere, di allontanarsi nell'altrove, di girare le pagine. E quella storia dei talenti torna continuamente in mente, quasi come se volesse piantarsi nell'animo la convinzione che tu li stai sprecando perché non ti applichi con abbastanza disciplina. Restano i sogni, e le frasi che si aggrappano al dormiveglia in cui costruisco le storie, che però si smarriscono con la luce del sole. Il rimpianto della malinconia indugia fino al giungere del giorno, mentre mi alzo con la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante. Una bambina che dice buon appetito a un piccione, per esempio. O l'immagine di un barboncino tutto elegante, che fasciato nel suo cappotto porta una signora nella borsetta. Non so se esista un incubo geloso che rivoglia indietro i suoi tesori, o si tratti di stanchezza. So di certo che, se la pazienza è la virtù dei forti, lo voglio dimostrare. In barba al maelstrom improvviso che mi trascina, mi butto nell'occhio del ciclone dove tutto è fermo. Mi siedo col silenzio e, vorticando, aspetto. Che tutto cessi, che mi appaia un confine, o un nuovo regno. Dove sedersi sotto un grosso albero, o in riva al mare, a scrivere. Infine.