Il mio cervello è
in modalità aereo. Sto cercando in impedirgli di pensare, di cercare, di
sognare, di aspettare. Tutta la vista è concentrata sull’orizzonte di un mare
che mi sembra lontanissimo per quanto calmo, che si perde nel silenzio di un
mattino che, pur sembrando identico a tanti altri, non lo è. Il cuore mi è
scivolato dalla tasca, l’ho perso senza nemmeno il rumore che possa fare un
mazzo di chiavi sull’asfalto. E io cammino con un vuoto nel petto, come un
automa di legno composto da pezzi di puzzle che vada in cerca dell’unico
mancante. E vago, sui marciapiedi che sembrano sempre sinonimi di incontri e
attese, senza nemmeno sapere bene dove andare. Non è il fatto che non ci sia
più tu, a farmi paura. E’ il fatto che non ci sono più io, nemmeno nel riflesso
delle pozzanghere asciutte. Mi siedo su una panchina davanti al mare. Accarezzo
le foglie di una pianta per sentire la vita scorrere, affondo le dita nella
terra alla ricerca di un tesoro di cui ho perduto la mappa. Mi sento stanca.
Eppure in tutto questo stare ferma e dolorante trovo un senso, quasi che il
dolore mi facesse sentire viva e mi ricordasse che ho qualcosa dentro di cui
molti si vergognano e che qualcuno ha addirittura dimenticato. La crepa nel
muro bianco mi attraversa come una fitta, e chiudo gli occhi. Passerà, mi dico.
Respiro a fondo e penso che tra le pagine dei libri il mio stato d’animo trova
un’eco forte come la risacca d’autunno. Il sole mi asciuga la faccia. Metto i
ricordi in tasca e mi incammino senza contare i passi.
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