Le parole fanno capolino dai quadretti. Cerco di acchiapparle come si faceva con i pesci di plastica che aprivano e chiudevano la bocca in quel gioco che usavamo da bambini. A me si attorcigliava la lenza della canna, distratta com'ero dal ronzio di sottofondo e dai quadretti del tappeto. Sul tappeto si giocava con i soldatini, di domenica. A me ricordava una nave spaziale, ma nel fustino non c'erano astronauti. Dietro la poltrona ci si poteva nascondere e far finta di essere un leone o una pantera, e sotto il divano si nascondevano i libri e tutti i Topolino dispersi, quelli di cui lo zio si intestardiva a cercare i numeri mancanti. Da lì la vestaglia della nonna sembrava la veste di Sherazade, e i piedi del nonno quelli dei pastori del presepe. Il termosifone era perfetto per appoggiare le figurine in bilico, anche se cadevano ad un soffio, molto prima che la biglia li raggiungesse. Perdere non era una tragedia, la era solo essere scovati a nascondino o non poter essere ammessi a salire sulla casa sull'albero. Scivolavo spesso, e le mie ginocchia non avevano più posto per i graffi, però avevo le mani piene di more, di susine, di ciliege. In terrazzo sotto la tenda scrivevo, la penna impugnata per fronteggiare il caldo accecante del pomeriggio. Non ho cambiato certe abitudini, mi siedo ancora a gambe incrociate su un cuscino quando scrivo, su fogli possibilmente non del tutto bianchi, e senza righe. Con una matita appuntita che, scrivendo in stampatello, chiude le lettere nella gabbia dei quadretti. Da lì le parole tentano di fuggire o di affacciarsi sul mondo. A volte le lascio fuggire senza oppormi, perché so che da sole troveranno la strada di casa. Altre volte mi raggiunge la consapevolezza dolce che prima o poi, come i ricordi, le parole torneranno da me.
che bello!
RispondiElimina:)
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