Le parole fanno capolino dai quadretti. Cerco di acchiapparle come si faceva con i pesci di plastica che aprivano e chiudevano la bocca in quel gioco che usavamo da bambini. A me si attorcigliava la lenza della canna, distratta com'ero dal ronzio di sottofondo e dai quadretti del tappeto. Sul tappeto si giocava con i soldatini, di domenica. A me ricordava una nave spaziale, ma nel fustino non c'erano astronauti. Dietro la poltrona ci si poteva nascondere e far finta di essere un leone o una pantera, e sotto il divano si nascondevano i libri e tutti i Topolino dispersi, quelli di cui lo zio si intestardiva a cercare i numeri mancanti. Da lì la vestaglia della nonna sembrava la veste di Sherazade, e i piedi del nonno quelli dei pastori del presepe. Il termosifone era perfetto per appoggiare le figurine in bilico, anche se cadevano ad un soffio, molto prima che la biglia li raggiungesse. Perdere non era una tragedia, la era solo essere scovati a nascondino o non poter essere ammessi a salire sulla casa sull'albero. Scivolavo spesso, e le mie ginocchia non avevano più posto per i graffi, però avevo le mani piene di more, di susine, di ciliege. In terrazzo sotto la tenda scrivevo, la penna impugnata per fronteggiare il caldo accecante del pomeriggio. Non ho cambiato certe abitudini, mi siedo ancora a gambe incrociate su un cuscino quando scrivo, su fogli possibilmente non del tutto bianchi, e senza righe. Con una matita appuntita che, scrivendo in stampatello, chiude le lettere nella gabbia dei quadretti. Da lì le parole tentano di fuggire o di affacciarsi sul mondo. A volte le lascio fuggire senza oppormi, perché so che da sole troveranno la strada di casa. Altre volte mi raggiunge la consapevolezza dolce che prima o poi, come i ricordi, le parole torneranno da me.
giovedì 29 novembre 2012
lunedì 26 novembre 2012
Le onde trascinano la paletta consumata di plastica gialla avanti e indietro, e io mi sento abbandonata come un vuoto casuale. La sensazione di smarrimento che accompagna davanti alla morte mi tiene la mano e mi culla come un'onda, mentre rifletto su rughe che indicano una vita passata serenamente, sulla mancanza di alcuni parenti che riscuoteranno comunque un'eredità, sull'intonaco lavanda della camera mortuaria che si scrosta come la fede da chi vacilla. Fa freddo, e le firme tentano invano di riempire il vuoto su una pagina lasciata a metà. I frammenti della mia vita cadono come foglie da un albero ingiallito e silenzioso. Restano le lettere a consegnare la memoria di un postino sorridente come un nonno, quando una me bambina gli correva incontro aprendogli entusiasta il portone. Resta il suo cognome da pietra preziosa, il cui ricordo continuerà a brillare nascosto nei cassetti della memoria. Resta un amore per la carta non scartata, per le foglie secche, per i francobolli smarriti sotto timbri illeggibili e la immancabile buona tavola. Nel salutarlo un'ultima volta vorrei avere la sua eleganza, toccarmi il cappello con aria smarrita e dirgli che non mi sono ancora sposata, perché so che vorrebbe saperlo. Invece resto qui, senza le parole per una nuova preghiera, con le dita raccolte come fiori recisi.
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